Mentre i riformisti esultano per la vittoria elettorale del 26 febbraio scorso, le donne si ritrovano ancora una volta costrette ad affrontare la scomoda realtà della discriminazione, dettata da un sistema fortemente conservatore e patriarcale in cui le rivendicazioni civili – specialmente a livello di equiparazione dei sessi – assumono un’importanza secondaria, se non addirittura irrisoria.

Eppure nella rivoluzione islamica del 1979 (culminata con la deposizione dello shah Reza Palhavi e la concomitante ascesa al potere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini) l’apporto femminile si era rivelato determinante: al pari degli uomini, le iraniane non avevano esitato a invadere strade e piazze per invocare libertà e diritti. Animate da un legittimo desiderio di rivalsa nei confronti dell’emarginazione sociale di cui erano sempre state oggetto auspicavano un’evoluzione sociale troppo a lungo ignorata dalle istituzioni, sognavano un futuro carico di ottimismo e di nuove, promettenti opportunità individuali.

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Aspettative puntualmente disattese. Un tradimento morale sfociato nella subitanea imposizione di un rigido codice d’abbigliamento accompagnato dalla negazione dei diritti legali più elementari, quali la custodia dei figli o un equo trattamento familiare. Le cosiddette ribelli – quelle, insomma, che non accettavano la sottomissione all’autorità maschile  – venivano tacciate in termini di “femministe” (con valenza dispregiativa) o addirittura accusate di “spionaggio” a favore di non meglio identificate “potenze estere“.

E sebbene l’epoca legata alla presidenza di Mohamed Khatami (1997-2005) sia stata caratterizzata da un’intensa opera di innovazione e dalla presenza al governo di 11 deputate, nessun progresso davvero significativo ha potuto essere registrato sul piano della parità di genere. “Nel sesto Majilis (Assemblea nazionale consultiva, n.d.r.) ho ripetutamente promosso l’accesso femminile al lavoro“, ha chiarito Fatemeh Haghighatjoo, un’ex parlamentare ora in esilio negli Stati Uniti, “perchè volevo offrire a tutte buone prospettive di affermazione. Purtroppo l’aula non è stata d’accordo. Persino tra i  colleghi fautori del cambiamento quasi nessuno ha condiviso le mie proposte“.

IRANS KHATAMI ADDRESSES UNITED NATIONS...President Sayed Mohammad Khatami of Iran addresses the United Nations General Assembly, in New York November 10, 2001. REUTERS/Ray Stubblebine

Esternazioni dalle quali si evince che persino in ambito governativo vige una percezione solo parziale delle divergenze tuttora radicate nella società iraniana: per le rare rappresentanti dell’altra metà del cielo le barriere restano irrimediabilmente circoscritte all’ambito lavorativo. Temendo il fallimento di ogni iniziativa volta al miglioramento della loro condizione, le donne sembrano escludere a priori il conseguimento di risultati apprezzabili sul piano giuridico (tra l’altro l’Iran vanta il minor numero di deputate al mondo: un ottavo dei 290 scranni parlamentari).

Nelle passate legislature sono state sottoscritte 42 mozioni, a fronte di una decina di petizioni ministeriali rimaste inevase“, ha osservato Parvaneh Salahshoor. Un fattore che contribuisce a rendere la lotta per l’emancipazione femminile sempre più elitaria ma anche (e soprattutto) frustrante. “Secondo me queste elezioni vanno intese come un secondo accordo sul nucleare attraverso cui l’esecutivo potrebbe dispensare diritti al popolo“, ha incalzato Soheila Jelodarzadeh, una delle moderate in lista.

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Durante la recente campagna elettorale, le autorità locali avevano ripetutamente invitato le donne a compiere “il loro dovere islamico” e mostrare un maggior interesse per la vita politica del paese. Avallando la presenza femminile al governo in quanto “importante per l’opinione pubblica“,  il leader Hassan Rouhani voleva sovvertire, almeno in apparenza, l’ordine tradizionale vigente.  “Indipendentemente dal sesso di appartenenza”, soleva ripetere, “chiunque sia qualificato può partecipare alle consultazioni popolari  per il rinnovo del parlamento (290 membri, n.d.r.) e dell’Assemblea degli Esperti (peccato che il Consiglio dei Guardiani avesse già depennato le candidature femminili agli 88 scranni, n.d.r.)“. Un appello in tal senso era giunto anche dalla guida spirituale suprema, l’ayatollah Alì Khamenei: per incentivare l’affluenza degli elettori non aveva esitato a ricordare che “non serve chiedere il permesso ai mariti per andare a votare“.

Tuttavia, dopo la chiusura dei seggi e a trionfo avvenuto  (forse per non urtare i vertici dell’establishment stesso), il presidente non si è rivelato affatto in grado di scegliere un ministro con il chador nel novero delle 15 elette, cinque delle quali affronteranno il ballottaggio. “Il diritto di voto non conta in assenza di libere elezioni“, ha tuonato Shadi Sadr, storica esponente del femminismo esiliata a Londra.

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Uno degli obiettivi dei vertici iraniani  è sempre stato in effetti quello  quello di dar vita a una nuova generazione femminile del tutto conforme ai principi religiosi imposti dal radicalismo. Qualche anno fa –  sotto l’egida dell’allora capo di stato Mahmoud Ahmadinejad – era improvvisamente comparsa  una fantomatica “pagella” atta a costituire uno strumento scolastico di valutazione circa il corretto modo di indossare l’hijab da parte delle bambine.

A ciò va aggiunto il fatto che in 36 atenei nazionali le materie vietate alle ragazze avevano subito un sensibile aumento (da due a 77). Discipline quali contabilità, letteratura persiana e anglosassone, geografia nonchè alcune branche della chimica e parecchie specializzazioni ingegneristiche erano diventate appannaggio esclusivamente maschile. Il giornalista Minou Badiei aveva addirittura ventilato l’esistenza di un preciso disegno, appositamente tracciato  “affìnchè le donne stiano a casa e siano private di  ogni diritto sociale, educativo, professionale“.

Un ennesimo tentativo del regime di indebolire il movimento femminista locale, dal momento che la potentissima casta clericale si era  affrettata a condannare il  pericolo insito nell’alto livello di istruzione, passibile di indurre le donne ad accantonare quei progetti di maternità e matrimonio ritenuti irrinunciabili per il benessere del paese, ma anche prerogativa unica ed essenziale del sesso femminile.

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Le iraniane non sembrano però ulteriormente disposte a cedere ai soprusi. Bloggers, avvocatesse, giornaliste  stanno lottando per scongiurare  la lapidazione delle adultere; migliaia di studentesse manifestano con cadenza regolare per protestare contro la violenza perpetrata nei confronti delle donne. “L’Iran sta gradualmente procedendo in direzione di un rafforzamento del ruolo femminile“, ha obiettato Shahindorkht Molaversi, vicepresidente della Women and Family Affairs. “Certo esistono difficoltà non indifferenti, ma sono dovute alle diversità naturali“. Le stesse che sostanzialmente hanno  decretato la sconfitta delle donne alle urne.

Dalla politica di segregazione si deduce l’imposizione di quella cultura patriarcale che punta a rafforzare il ruolo della donna  in ambito domestico per svilirne la visibilità e la potenzialità di affermazione sociale“, aveva ribadito in una lettera aperta alle Nazioni Unite  Shirin Ebadi, celebre avvocatessa insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2003 e paladina dell’universalità dei diritti femminili. Una verità che, alla luce della situazione attuale, non può essere smentita in alcun modo.

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